L’intelligenza artificiale comincia a farsi posto nell’’uomo. Vi è entrata con i modi di una gravidanza. Abbiamo osservato l’addome crescere; sospettosi, idealisti, comunque ammirati; abbiamo toccato le rotondità che si allungavano in avanti. E adesso, eccoci qua. Per ciascuno – ormai è chiaro - si profila una nuova abitudine: una compagnia sintetica e collaborativa a portata di mano, quasi per ogni esigenza del quotidiano: un ‘co-pilota’ (ci suggerisce l’empatia finta di un motore di ricerca). Ma l’impiego dell’intelligenza artificiale nel suo divenire varietà sempre più affascinante e meravigliosa (anche attraverso atti che presto tenderanno all’imposizione) è una faccenda che non riguarda soltanto la nostra individualità. Riguarda da vicino lo Stato in quanto tale. Stavolta, davvero fin nei suoi visceri. Proprio là, dove stanno i congegni che gli consentono di esercitare le funzioni pubbliche. Da questo punto di vista, poiché le applicazioni dell’IA pervaderanno le manifestazioni della vita umana e poiché l’agire umano è presupposto di quelle funzioni, sembra arrivato il tempo di istigare una profonda riflessione politica sulle conseguenze della tecnologia che cadono sopra le funzioni pubbliche. Il lavoro, ad esempio, ha ruolo essenziale nel quadro del sistema di prelievo e spesa. Rileva sia come costo (si immagini l’impiego del personale nelle amministrazioni dello Stato) sia come fattore che genera il reddito, e, dunque, imposte dirette e indirette. L’impianto tributario è costruito sul lavoro, e su ciò a cui esso si collega quando produce o determina altre manifestazioni economiche. Senza il reddito da lavoro le regole giuridiche dei sistemi fiscali non avrebbero senso. E, sistemi fiscali senza senso, ossia, inutili, impedirebbero di raccogliere la finanza destinata all’esercizio delle funzioni dello Stato. Ora, la fine del lavoro, la fine di intere categorie di lavoro dipendente e autonomo, è un fatto pressoché certo è ben vistoso già oltre la punta del piede. Se quanto detto è ragionevole e se gli impianti tributari resteranno ciò che sono oggi, entro qualche anno anche le funzioni pubbliche che necessitano risorse finanziarie verranno meno, oppure si manifesteranno in modo comunque diverso dalle aspettative a cui siamo abituati. L’offerta di sanità, di istruzione, di sicurezza, solo per ricordarne alcune, tenderanno ad essere insufficienti se non, addirittura, a scomparire del tutto, assorbite da forniture private (a beneficio soltanto di chi ha possibilità economiche). Insomma, si è già innescato un processo causale di enorme significato sociale: l’intelligenza artificiale si dissolverà presto anche nel sangue dello Stato: nei circuiti finanziari. Si farà carne e tessuto. Una metamorfosi epocale nella organizzazione della funzione erariale e dei meccanismi di prelievo. Tale metamorfosi non intima, semplicemente, un ‘cambio di passo’; un intervento di ammodernamento. No. Siamo spinti dentro uno spazio che si stringe. Un luogo in cui è essenziale riconoscere il bisogno vitale di un inedito modello culturale dove il fisco diviene altro (dai presupposti dell’imposta alla determinazione della base imponibile); il sistema sanitario diviene altro (trascinato, anche, da un sistema di assicurazione privata generale che diviene altro); l’istruzione diviene altro. Non comprendere i segni che, come frutti rossi, crescono dal terreno, consegnerà l’iniziativa al caso. E allora sì, sarà difficile opporre qualcosa di giusto, qualcosa di equo e seriamente alternativo alle istanze di moltitudini di persone che, perduto il lavoro, umiliate e prive di prospettiva, chiederanno di ricevere un sostegno finanziario indifferenziato. Una pensione risarcitoria per non essere stati difesi dalla perdita del lavoro, garanzia costituzionale della nostra Repubblica.