La costituzione di rendite vitalizie – anche per via assicurativa - è uno degli strumenti in uso nei Tribunali civili per garantire ai danneggiati l’indennizzo per responsabilità civile. Le sentenze che costituiscono tali rendite vitalizie sono soggette ad applicazione dell’imposta di registro del 3 % su un imponibile determinato secondo le disposizioni del T.U.R. (d.p.r. n. 131/1986).
In particolare, l’art. 46, comma 2, lett. c) (TUR) stabilisce che il valore della rendita si determina “moltiplicando l’annualità” per i coefficienti indicati in apposito allegato al testo unico “applicabil(i) in relazione all’età della persona alla cui morte la rendita deve cessare”. Si noti che il prospetto originario fu elaborato nel 1986, in occasione dell’emanazione del d.P.R. 131/1986, in un’epoca in cui il saggio dell’interesse legale era stabilmente al 5%. Tali coefficienti, in base alla citata disposizione, devono tuttavia essere aggiornati in base alla variazione del tasso d’interesse legale.
Periodicamente (quasi annualmente), sulla base della richiamata disposizione, il Direttore Generale delle Finanze, di concerto con il Ragioniere dello Stato, ha provveduto all’aggiornamento dei coefficienti indicati nel “prospetto” allegato al TUR, poi veicolati tramite decreto ministeriale. Deve, fin da ora, evidenziarsi che i medesimi coefficienti sono funzionali alle modalità di calcolo non solo delle rendite vitalizie, bensì, anche e precipuamente per ciò che si preciserà, dei diritti di usufrutto a vita. Come indicato nei provvedimenti, infatti, l’adeguamento delle modalità di calcolo dei diritti di usufrutto e delle rendite o pensioni vitalizi avviene “in ragione della nuova misura del saggio di interessi”. Senonché, nei provvedimenti di revisione dei coefficienti successivi al 1986, il Ministero ha commesso l’errore (storico) di stabilire coefficienti per il calcolo del valore della rendita vitalizia uguali a quelli che si devono utilizzare per il calcolo dell’usufrutto vitalizio, determinando situazioni paradossali. Infatti, i coefficienti di moltiplicazione, recati dai decreti ministeriali, sono legittimi ed accettabili quando si tratta di calcolare il valore dell’usufrutto vitalizio, ma invece completamente illegittimi, per illogicità e arbitrarietà, quando si tratta di calcolare il valore della rendita vitalizia.
E’ necessario fare un esempio: poniamo una rendita vitalizia costituita in base a sentenza nel 2021 in favore di una persona di 51 anni per l’importo di 6.000 euro annui; augurando una lunghissima vita al beneficiario, ipoteticamente riuscirà a beneficiare di una somma complessiva di 200.000/300.000 Euro. Applicando il combinato disposto dell’art. 46, comma 2, lett. c), TUR e del D.M. Finanze 18 dicembre 2020, la base imponibile della rendita vitalizia non è di 200/300 mila euro, ma sarebbe:
Coefficiente 7.000
BASE IMPONIBILE 6.000,00 x 7.000 = 42.000.000,00 (sì: 42 milioni di Euro!)
Imposta di registro (3%) = Euro 1.260.000 (!)
L’ufficio delle entrate (di prassi) per determinare la base imponibile moltiplica la rendita annua per il coefficiente previsto dal decreto (aggiornato periodicamente) del Ministero delle finanze che contiene i coefficienti per il calcolo in base all’età del beneficiato.
Tuttavia, il metodo di calcolo adottato porta ad un risultato inaccettabile: l’imposta così determinata è abnorme, manifestamente ingiusta e irragionevole.
A cosa dobbiamo quindi (quasi) 40 anni di liquidazioni sbagliate da parte degli uffici delle entrate?
Il decreto del Ministero delle Finanze non può assolutamente essere applicato come preteso dall’ufficio, in quanto atto illegittimo ed errato concettualmente, ovvero incompleto, per i motivi di seguito spiegati. Esso, infatti, trascura la circostanza che il medesimo coefficiente (in parte qua) si debba applicare per la determinazione della base imponibile di due fattispecie diverse:
a) il calcolo del valore dell’usufrutto a vita [il decreto è orientato unicamente per il calcolo relativo a questa fattispecie];
b) il calcolo del valore della rendita vitalizia [il decreto ignora gli effetti relativi a quest’altra fattispecie].
Infatti, nel primo caso (usufrutto a vita) il coefficiente si applica su un valore in capitale (somma di denaro) che è moltiplicato per il saggio di interesse annuo; nel secondo caso il coefficiente si applica sul capitale (e non moltiplicandolo per il tasso). Il che – concettualmente – è logico perché una cosa è l’usufrutto su una somma di denaro, altra cosa il godimento integrale di un capitale annuo.
Tuttavia, il Ministero avrebbe dovuto prevedere coefficienti diversi per le due fattispecie.
Invero, ai fini della determinazione del valore dell’usufrutto vitalizio, nell’ipotesi di tassi di interesse legali particolarmente bassi come quelli in esame (0,01%, tasso di riferimento per il decreto del ministro delle finanze di dicembre 2020), i coefficienti devono essere molto elevati per tenere conto del basso interesse legale, per attribuire significatività (ed invarianza rispetto alla medesima fattispecie in altri periodi d’imposta) al valore (cioè i coefficienti sono inversamente proporzionali ai tassi).
Ma la moltiplicazione del medesimo coefficiente (senza moltiplicazione per il saggio di interessi) ad un capitale (ipotesi in esame della rendita vitalizia) conduce appunto ad un risultato assurdo e paradossale. I concetti si comprendono facilmente attraverso i seguenti esempi, calcolati su diversi anni:
- qualora l’imposta fosse stata liquidata nel 1986 in base alla tabella allegata al TUR (anno 1986, tasso di interesse 5%), questi sarebbero stati gli effetti della liquidazione dell’imposta di registro su un usufrutto a vita e su una rendita vitalizia (con la precisazione che si prende a riferimento la rendita di Euro 6.000 annui):
USUFRUTTO A VITA: 6.000 x 5% x 14 = 4.200, imp. registro (3%) Euro 126,00
RENDITA VITALIZIA: 6.000 x 14 = 827.640, imp. registro (3%) Euro 2.520,00
-in caso di imposta liquidata per il 2021 (esempio di cui sopra che considera il tasso di interesse per l’anno pari al 0,01%) gli effetti della liquidazione dell’imposta di registro su un usufrutto a vita e su una rendita vitalizia sono i seguenti:
USUFRUTTO A VITA: 6.000 x 0,01% x 7.000 = 4.200 imp. registro (3%) Euro 126,00;
RENDITA VITALIZIA secondo prassi Ufficio: 6.000 x 7.000 = 42.000.000, imp. registro (3%) Euro 1.260.000,00
-qualora l’imposta fosse stata liquidata nel 2022 in base alla tabella allegata al D.M. 21 dicembre 2021 (anno 2021 tasso di interesse 1,25%; doc. 5), questi sarebbero stati gli effetti della liquidazione dell’imposta di registro su un usufrutto a vita e su una rendita vitalizia:
USUFRUTTO A VITA: 6.000 X 1,25 % x 56= 4.200, imp. registro (3%) Euro 126,00;
RENDITA VITALIZIA secondo tesi Ufficio: 6.000 x 56 = 336.000 imp. registro Euro 10.080.
Dunque, come risulta evidente dagli esempi sopraesposti, il coefficiente e il tasso di interesse legale, ove modificati nei diversi periodi d’imposta, danno luogo per la tassazione dell’usufrutto vitalizio al medesimo risultato. Al contrario, ciò non avviene per la tassazione della rendita vitalizia, ove si ottengono risultati sempre diversi e illogici.
Questo perché il provvedimento ministeriale è stato studiato prendendo a riferimento solamente il calcolo dell’usufrutto (capitale x coefficiente x tasso di interesse), con l’obiettivo di mantenere inalterato il valore della base imponibile ai fini della tassazione dell’usufrutto al mutare del saggio legale di interesse. Pertanto, deve ritenersi che per la tassazione della rendita vitalizia il corretto coefficiente debba rimanere quello previsto originariamente dal TUR; di conseguenza, la liquidazione dell’imposta, nel caso di specie, dovrebbe essere la seguente:
a) con riguardo alla rendita di Euro 6.000,00 annui (età: 51 anni):
6.000 x 14 = 84.000,00, imp. registro (3%) Euro 2.520
in luogo di quella liquidata in casi analoghi dal Pubblico Ufficio, pari ad Euro 1.260.000.
Il Decreto Ministeriale contestato, in concreto, assumendo un sistema di adeguamento dei coefficienti fondato unicamente sulla modifica del saggio legale di interesse, appare congruo e coerente per il calcolo della base imponibile in caso di usufrutto vitalizia, mentre produce effetti abnormi se applicato sic et simpliciter alle rendite vitalizie.
Il Ministero non ha considerato che, in presenza di saggi legali di interesse poco superiori allo 0% (come quelli vigenti negli scorsi anni e in particolare nel 2021) la diversità dei due istituti avrebbe dovuto, quanto meno, indurre a prevedere un nuovo, specifico, sistema di calcolo della base imponibile nel caso delle rendite a vita, che tenesse conto del variare del saggio di interesse legale, o meglio, per il calcolo della base imponibile delle rendite vitalizie si sarebbe dovuta tenere ferma la tabella allegata al T.U.R., posto che tutti i decreti ministeriali di fissazione dei coefficienti hanno avuto di mira il solo scopo – realizzatosi per quanto concerne gli usufrutti vitalizi ma mancato con effetti paradossali per quanto concerne le rendite vitalizie - di mantenere invariata la base imponibile rispetto all’allegato al T.U.R.
Per quanto sopra esposto, la liquidazione (finora) in uso presso gli uffici delle rendite vitalizie risulta incompatibile con il sistema delineato dall’art. 46 d.P.R. 131/1986, nonché abnorme, irragionevole e manifestamente ingiusta. Tale prassi è contrastante con il principio costituzionale di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. Non è consentito richiedere al soggetto un concorso alle spese pubbliche superiore a quella che è la sua capacità contributiva, giacché in tali ipotesi verrebbe meno la necessaria correlazione tra obbligo di contribuzione, e verrebbe in sostanza colpita una capacità contributiva inesistente. Ciò importa il divieto che il prelievo sia di ammontare così elevato da risolversi in espropriazione dell’oggetto della imposizione.
Al riguardo, giusto il richiamo dell’art. 117 Cost., opera a tutela del contribuente anche l’art. 1 del primo protocollo aggiuntivo alla CEDU, a mente del quale “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte EDU, qualsiasi interferenza statale deve garantire un “giusto” equilibrio tra le esigenze di interesse generale della comunità e i diritti fondamentali dell’individuo (c.d. proportionality test). Per l’effetto, l’obbligo finanziario che sorge dal prelievo dei tributi o di altre forme di contribuzione, può violare la garanzia consacrata dall’art. 1 Protocollo n. 1 se impone al soggetto interessato un onere eccessivo o reca un sostanziale danno alla sua situazione finanziaria [Corte EDU, Buffalo Srl c. Italia, 03/07/2003, n. 38746/97; Corte EDU, N.K.M. c. Ungheria, 14/05/2013, n. 66529/11].
D’altronde l’imposta deve essere il prelevamento di una “quota”, non della totalità della materia imponibile. Ne consegue, in punto di principio, l’illegittimità del D.M. Finanze 18 dicembre 2020 utilizzato nell’esempio, come, invero, di tutti i decreti che lo hanno preceduto e seguito ad oggi, per violazione dell’art. 46, comma 2, TUR, all’art. 53 Cost., nonché con l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 1 del primo protocollo aggiuntivo alla CEDU.
Tale illegittimità deve (o avrebbe dovuto) comportare la disapplicazione di tali decreti (certamente da parte del Giudice tributario ex art. 7, D.Lgs. n. 546/1992): in suo luogo, come sopra illustrato, risulta coerente e ragionevole, oltre che legittima, l’applicazione del coefficiente contenuto nel prospetto originario allegato al TUR.
Il legislatore, dopo lungo dibattito anche giurisprudenziale, ha (finalmente) preso atto del paradosso illustrato. Come ha inteso risolvere la questione della prassi (quasi quarantennale) di applicazione errata dell’imposta da parte degli uffici?
E’ stato emanato l’art. 9 del d.lgs. 139/2024, in vigore dal 3 ottobre 2024, il quale al comma 4 dispone che, “per le rendite costituite anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto nonché per le successioni aperte e le donazioni fatte anteriormente a tale data, ai fini della determinazione della base imponibile delle rendite vitalizie di cui all'articolo 46, comma 2, lettera c), del testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 e all'articolo 17, comma 1, lettera c), del testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, relativamente alle quali i relativi rapporti non sono esauriti alla data di entrata in vigore del presente decreto, laddove il tasso di interesse legale risulta uguale o inferiore allo 0,1 per cento, si assumono i coefficienti risultanti dal prospetto allegato al decreto del Ministero dell'economia e delle finanze 21 dicembre 2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 302 del 30 dicembre 2015.
Pertanto, nell’ipotesi in cui l’avviso di liquidazione di cui al nostro esempio fosse stato impugnato (trattandosi quindi di “rapporto non esaurito”), facendosi applicazione della citata norma, nel caso in rassegna, si giunge ad un risultato ben lontano dalla liquidazione di prassi dell’Ufficio:
- con riguardo alla rendita di Euro 6.000,00 annui (età: 51 anni):
6.000 x 350 = 2.100.000,00, imp. registro (3%) Euro 63.000.
e non già Euro 1.260.000.
Di ciò ci si deve rallegrare, si è fatto un passo avanti: ma è la soluzione “tecnicamente” corretta?
No, la soluzione “tecnicamente” corretta, come sopra precisato, è l’applicazione nella fattispecie del coefficiente allegato al T.U.R. giacché è quello che – anche in “parallelo” con il coefficiente relativo agli usufrutti vitalizi – il decreto ministeriale applicabile avrebbe dovuto, in base alla “delega” da parte di atto avente forza di legge, fissare.
L’equa, corretta e legittima liquidazione dell’imposta sarebbe, dunque, stata:
RENDITA VITALIZIA: 6.000 x 14 (coefficiente allegato al T.U.R.) = 827.640, imp. registro (3%) Euro 2.520.
Ci si deve allora chiedere se la novella legislativa, la quale, quanto meno, ha l’indubbio merito sostanziale di fissare un limite, sia equa e costituzionalmente legittima. In punto di equità, ciascuno può avere la propria “sensibilità”: certamente, tornando all’esempio, 63.000 euro d’imposta (cioè l’equivalente della rendita per 10 anni e mezzo, che viene “cancellata” dall’imposta) sono meglio di 1.260.000, ma sono assai più di 2.520 euro (che, lo si ripete, è la tassazione “tecnicamente” corretta).
In punto di legittimità, come si deve considerare la disposizione sopravvenuta?
E’ una disposizione che determina retroattivamente la base imponibile (ma solo per i rapporti “non esauriti”); non ci sono dubbi particolari: “ai fini della determinazione della base imponibile … si assumono….)”: più correttamente si dovrebbe dire che è disposizione che si “sostituisce” retroattivamente - “importando” i coefficienti del d.m. 21 dicembre 2015 - al combinato disposto dell’art. 46, comma 2 del T.U.R. e dei (paradossali ed indubbiamente illegittimi in partis quibus) decreti ministeriali elaborati in anni in cui il saggio di interesse legale era inferiore allo 0,1 %.
In tema di norme fiscali retroattive è noto come esista un ampio dibattito sui limiti di costituzionalità: con una semplificazione si potrebbe dire che la Corte costituzionale, nei rari casi di norme fiscali retroattive introdotte in passato, le ha fatte salve purché giustificate in base ad un principio di ragionevolezza e nel caso non si realizzi la compressione di principi o valori costituzionalmente protetti.
In questo caso, ove in base al “termometro” di equità di cui sopra, si ritenga che la novella sia tutelativa per i contribuenti perché pone un limite a quello che era certamente un paradosso ma anche un pesantissimo abuso, integrerebbe i limiti di costituzionalità di cui sopra. Ma ove si ponga mente al fatto che (nell’esempio di cui sopra) l’imposta di registro è liquidata in misura pari a circa 25 volte quella di giustizia, non pare che possa resistere ad un sindacato di costituzionalità.
In definitiva si tratta di un intervento insufficiente, in quanto rimuove ma solo in parte l’illegittimità dei decreti ministeriali in questione che sono, ed è chiaro a tutti, errati nei presupposti, determinando un’imposizione non conforme al principio di capacità contributiva.